Identità perdute
Dopo trent’anni di trionfo incontrastato della «fine della storia», ora assistiamo a un nuovo scontro epocale che rimette tutto in discussione. I nostri tempi sono contrassegnati dal conflitto tra il principio guida nazio-nale e quello sovranazionale, globale. Nella contesa per il controllo delle leve per la costruzione dell’identità individuale e collettiva, sul campo si combattono due ideologie, con tutto il relativo corredo di simboli e di miti: la globalizzazione e il risorto nazionalismo. Nel nostro continente il consueto bersaglio di aspre critiche è l’Unione europea, beneficiaria nel corso degli anni di crescenti porzioni delle sovranità nazionali cedute dagli Stati membri. Inoltre, l’aver abdicato alla dottrina liberista della globalizzazione ha comportato, secondo l’opinione di molti, la rinuncia alla protezione sociale prima offerta dagli strumenti del welfare state. Si potrebbe obiettare che questa accusa trascura il fatto che la principale sfida che i sistemi di welfare pubblici hanno di fronte è un’altra: la radicale transizione demografica che tutte le società europee stanno vivendo, per quanto con ritmi differenti, responsabile di minarne la sostenibilità finanziaria a causa del crescente invecchiamento della popolazione (mentre il bilancio del «dare e avere» nei confronti degli stranieri immigrati è nettamente a favore delle popolazioni autoctone). Ma quel che conta è l’identità culturale minacciata, non soltanto le ragioni economiche e il rischio di perdere il lavoro.
Per spiegare quello che sta accadendo sono molto utili le categorie interpretative coniate da Kojève, che aveva un chiodo fisso per le implicazioni sociali delle speculazioni filosofiche.
Oggi il desiderio di riconoscimento sociale insoddisfatto risveglia la ricerca di una identità nazionalistica da riesumare. Ecco perché nell’umore popolare si affermano derive identitarie sostenute dall’emotività degli appelli politici, che hanno conosciuto una inedita curvatura dei linguaggi. Molti leader politici nazionali sollecitano i sentimenti dei cittadini scontenti — paura, rancore, rabbia — per ottenere il consenso degli elettorati. Il muro tra gli Stati Uniti e il Messico, i movimenti «no euro», la Brexit sono solo alcuni vessilli di questa battaglia. Questo è anche il motivo per cui buona parte dei ceti popolari e della classe operaia ha riorientato il proprio voto a favore di una «destra» politica nazionalista, come hanno rivelato in modo inequivocabile al di là dell’Atlantico la vittoria di Trump alle elezioni presidenziali (che pure, appena salito in carica, si è mosso subito contro il programma sanitario pubblico e a favore di un alleggerimento fiscale per i più ricchi), al di là della Manica la riuscita del leave nel referendum sulla Brexit, in Italia il successo elettorale e nei sondaggi della Lega e di Fratelli d’Italia, e altrove in Europa di partiti estremisti ed esplicitamente xenofobi. Secondo questo nuovo credo, si contrasta la deregolamentazione globale con misure economiche protezionistiche, si avversa politicamente il multiculturalismo, si incolpano le minoranze etniche di corrompere l’identità e gli stili dí vita delle comunità locali, riaffiorano pulsioni razziste e si rispolvera il repertorio classico contro le «differenze».
Ma quelle che solitamente consideriamo reazioni emotive della gente — i subbugli nella «pancia» degli elettori — evocano in realtà un sentimento più profondo, che riguarda propriamente la dimensione esistenziale: il desiderio di riconoscimento.
Pag 42-45 ” il contagio del desiderio” M. Valerii , 2020 Ponte alle Grazie, Milano